All’estero, il Ponte sullo Stretto sembra essersi trasformato in una narrazione collettiva più che in un progetto ingegneristico.

Una specie di mito moderno, un’Atlantide da inseguire nei notiziari. E, a quanto pare, i media internazionali si divertono più di noi — come ricordava la Repubblica in un articolo di domenica scorsa.

The Guardian ha scelto la via della satira gentile, definendo l’opera «una promessa che probabilmente non verrà mai mantenuta», in una Sicilia che «merita qualcosa di meglio di un’opera che rischia di restare sulla carta». In sostanza, da Londra non ci credono, e ridono sotto i baffi.

Secondo la Repubblica, mentre qui il ponte viene raccontato come un possibile motore di sviluppo, fuori dai confini nazionali sembra piuttosto «il più lungo ponte sospeso… tra l’annuncio e la realtà». E nelle rassegne estere i ripensamenti di Matteo Salvini tornano come un tormentone: nove anni fa definiva il ponte «uno spreco di denaro», oggi — da ministro — lo difende come «la più importante opera pubblica del mondo».

Da qui si apre una carrellata globale di perplessità. C’è chi, come il giornalista inglese Jamie Mackay, liquida la questione con ironia e realismo: meglio «le arancine di una costosa panacea d’acciaio», perché «la criminalità organizzata è prevalente. La povertà è un problema enorme. Il sistema sanitario è in ginocchio e la scuola è sul punto di collassare».

Per Al Jazeera, invece, il ponte è quasi una creatura mitologica: si parla di «preoccupazioni per l’impatto ambientale», di infiltrazioni mafiose che «gli attivisti temono possano interessare l’opera», e del rischio sismico che accompagna qualsiasi discussione.

I francesi, prevedibilmente, guardano all’Italia con la loro lente critica: Le Monde scrive che il progetto «incarna le contraddizioni dell’Italia di Meloni». El País ricorda i «costos disparados» e non rinuncia al riferimento al terremoto del 1908, come se fosse un promemoria obbligatorio quando si parla dello Stretto. Euronews si chiede se tutto questo sia «un progetto strategico o uno spreco di risorse».

Poi c’è l’Asia, sorprendentemente appassionata al tema: la televisione pubblica taiwanese PTS parla del ponte come di un’opera «discussa dagli anni ’60», elencando gli stessi nodi irrisolti — «zona altamente sismica», «costi molto elevati», rischio di «interferenze mafiose».

I media cinesi parlano di progetto «controverso» con «impatto ecologico significativo». In Corea è addirittura considerato «bloccato». E il Giappone, da osservatore meticoloso, inserisce regolarmente la criminalità organizzata nella cornice narrativa. Per molti di questi Paesi, il ponte più lungo del mondo resta, al momento, solo un titolo suggestivo.

Sotto al Ponte un mare di luoghi comuni

Le critiche della stampa internazionale contengono spunti seri e questioni che vale la pena tenere aperte. Alcune osservazioni sulla gestione, sulle priorità politiche o sui rischi effettivi sono legittime e utili.

Tuttavia, una parte di queste letture appare intrappolata in vecchi stereotipi che non aiutano a comprendere davvero la complessità dell’opera.

È difficile considerare pertinenti, nel 2025, commenti che suggeriscono di non costruire infrastrutture al Sud “per paura della criminalità”. È un ragionamento che ignora sia la realtà socioeconomica attuale sia gli strumenti di prevenzione e controllo sviluppati in decenni di opere pubbliche in aree complesse e che vorrebbe che la Sicilia fosse ferma ancora soltanto alle arancine...

Allo stesso modo, evocare edifici di oltre un secolo fa andati giù in pochi secondi nel terremoto del 1908 come parametro tecnico per giudicare il ponte significa trascurare completamente i progressi enormi di ingegneria strutturale, sismica e dei materiali. Pensare che una grande opera contemporanea non tenga conto del rischio di terremoti è semplicemente irrealistico.

Il risultato è una narrazione che mescola elementi fondati con pregiudizi culturalmente comodi. In certi passaggi della stampa straniera sembra quasi emergere un desiderio — neppure troppo velato — che l’opera fallisca, più per aderire all’idea che “gli italiani non sanno fare le cose” che per una reale analisi tecnica o economica.

Ed è questo, forse, il punto più debole di molte valutazioni estere: confondere il diritto alla critica con il piacere della caricatura.