La giornata di oggi, segnata da uno sciopero nazionale di 21 ore che rischia di mettere in seria difficoltà la mobilità del Paese, appare quanto mai opportuna per condividere con i lettori una riflessione che ci è giunta in Redazione.

Una lettera scritta con lucidità e onestà da chi, ogni giorno, lavora tra binari e le stazioni: i ferrovieri. Proprio loro, che in occasioni come questa si trovano spesso al centro di critiche, attacchi e incomprensioni, come se lo sciopero fosse un capriccio o, peggio ancora, una forma di dispetto nei confronti dei cittadini.

Ma scioperare, per chi lavora in ferrovia, non è mai una scelta facile né leggera. Non lo è sul piano umano, perché significa sapere che migliaia di persone subiranno disagi. E non lo è sul piano economico, perché ogni giornata di sciopero si traduce in una concreta perdita salariale. Nessuno si priva volontariamente di una parte dello stipendio per puro spirito di protesta. Se si arriva a incrociare le braccia, è perché dietro ci sono motivazioni profonde, condizioni di lavoro difficili, problematiche ignorate o sottovalutate troppo a lungo.

Lo sciopero, per quanto impopolare, è uno degli ultimi strumenti rimasti per portare all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni uno stato di disagio reale. Non è un gesto contro i viaggiatori, ma un grido di allarme da parte di chi ogni giorno contribuisce, spesso tra mille difficoltà, a far muovere il Paese.

Prima di giudicare, forse, vale la pena ascoltare. È questo l’invito che rivolgiamo oggi, con rispetto e senza retorica, a chiunque voglia comprendere le ragioni di chi lavora per far arrivare a destinazione milioni di persone, ma troppo spesso si sente invisibile.

"Non siamo eroi romantici. Siamo lavoratori dimenticati.

Mi chiamo come tanti. Non dirò il mio nome, ma ogni parola che leggerete viene dal cuore e dall’esperienza quotidiana di chi lavora a bordo treno.

Sono un ferroviere. Potrei essere macchinista, capotreno o personale di bordo di altro tipo. Cambia poco: le difficoltà, le fatiche e la solitudine, ci uniscono tutti.

Una vita appesa a un turno

Lavoriamo a qualsiasi ora. Turni spezzati, notturni, festivi. Ci viene chiesto di essere lucidi anche dopo ore di sonno interrotto. Spesso non sappiamo quando potremo vedere la nostra famiglia o partecipare a un compleanno, una cena, un Natale.

Non abbiamo una vita regolare.

Eppure dobbiamo essere sempre presenti, sempre disponibili, sempre professionali.

Le malattie del mestiere

Questo lavoro ci consuma, a volte lentamente, altre volte in modo invisibile.

Molti di noi soffrono, già nel breve periodo, di affaticamento cronico, disturbi del sonno, mal di schiena, problemi articolari, disturbi gastrointestinali dovuti agli orari irregolari e ai pasti improvvisati.

Con il tempo, si sviluppano patologie più gravi:

Ernie del disco, sciatalgie, infiammazioni cervicali e lombari, per via delle lunghe ore seduti o in piedi.

Problemi cardiovascolari (pressione alta, tachicardia), per lo stress continuo e la mancanza di recupero.

Depressione, ansia, burnout, per l’isolamento, la mancanza di ascolto e la pressione psicologica.

Problemi di udito e acufeni, per l’esposizione quotidiana a rumori forti in stazione e a bordo.

Danni alla vista (soprattutto per i macchinisti), dovuti all’uso prolungato di monitor e concentrazione visiva costante.

Problemi alle gambe come vene varicose o edema, per il continuo camminare in spazi ristretti senza pause adeguate.

E poi ci sono i traumi: chi guida ha visto persone lanciarsi sui binari, e porta con sé immagini che non si cancellano.

Chi sta a bordo ha subito aggressioni verbali e fisiche.

Queste cose lasciano segni. Non tutti si riprendono.

Non siamo più il ferroviere "di una volta"

Un tempo chi faceva questo lavoro veniva rispettato. Era un mestiere duro, sì, ma riconosciuto, anche economicamente. Oggi ci chiedono gli stessi sacrifici, se non di più, ma con meno tutele, meno riconoscimento e un potere d’acquisto sempre più basso.

La retribuzione reale è scesa, mentre le responsabilità aumentano. Paghiamo di tasca nostra i ritardi del sistema, gli imprevisti, le carenze di personale. E intanto la vita costa sempre di più.

Quando scioperiamo, non lo facciamo a cuor leggero

Ogni volta che un ferroviere sciopera, lo fa perdendo soldi, rischiando pressioni o ritorsioni. Ma scioperiamo perché nessuno ci ascolta, perché vogliamo condizioni di lavoro dignitose, orari umani, sicurezza per noi e per i passeggeri.

Non lo facciamo perché ci piace creare disagi: sappiamo bene chi paga il prezzo più alto dei disservizi. Lo facciamo perché non abbiamo altri strumenti.

Non siamo numeri

Non siamo macchine. Non siamo solo uniformi in piedi nei corridoi. Dietro ogni divisa c’è una persona stanca, che ci crede ancora, ma che chiede solo rispetto.

Non privilegi. Solo rispetto. Solo dignità. Solo ascolto.

Spero che questa lettera arrivi a chi può fare qualcosa. E che chi la legge possa vedere oltre il ritardo di un treno o la voce da altoparlante.

Dietro, c’è una vita come la vostra.

Firmato,

Un ferroviere qualunque,

come tanti altri invisibili".